Nola: una Festa da Unesco, una città da cortile – Atto II: l’assegnazione come specchio
Abbiamo cominciato ieri, con parole dure ma necessarie. Un grido di indignazione dopo la sfilata dei Gigli terminata addirittura intorno alle 14.30 del lunedì e contraddistinta dal bisogno di apparire, prevalere e imporsi.
Eppure, se la ballata è l’apice visibile di un problema profondo, il vero malessere si annida molti step prima. Prendiamo ad esempio l’assegnazione: un momento che dovrebbe essere sacro e sobrio e che, invece, un minuto dopo la conoscenza dei futuri maestri di festa aveva già il chiacchiericcio di ricorsi da presentare e amarezza da velleità non esaudite. Segno che persino in un passaggio teoricamente tecnico e sereno, regna la tensione.
L’elenco (ufficioso) dei Gigli assegnati per il 2026 è così predisposto, al netto di verifiche che porteranno ad una ufficialità solo a settembre e al netto di regolamenti dalla linea dura che dovrebbero arrivare mettendo così a dura prova le velleità sopracitate e le vanità già esaudite.
Ortolano: Petrone Santolo, maestro di festa Filippo Ianniciello, Paranza San Massimo (La Trinchese);
Salumiere: Maria Napolitano, maestro di festa Anna Giuseppina Torino, Paranza Pollicino;
Bettoliere: Girolamo Angeletti, maestro di festa Felice Caccavale, Paranza Volontari;
Panettiere: Raffaele De Rosa maestro di festa Anna Luisa Basilicata, Paranza Stella;
Barca Agata Mascia maestro di festa Giovanni Meo Paranza La Fedelissima;
Beccaio Mauro Antonio maestro di festa Rosa Broda, Paranza Gioventù Bruscianese;
Calzolaio: Isidoro Tardivo Maestro di festa Sebastiano Giugliano, Paranza Orgoglio Nolano;
Fabbro: Cipriano Esposito Maestro di festa Antonio Di Petrillo, Paranza La Mondiale;
Sarto: Giovanni Notaro maestro di festa Antonio Napolitano Paranza Impero Nolano
Al di là dei nomi, delle paranze, delle firme, il problema è un altro. È l’aria che si respira, ormai da qualche anno, anche in quello che una volta era un semplice, sentito, emozionante momento di attesa e riconoscenza. Un tempo, e non serve tornare ai “miti fondatori” l’assegnazione avveniva in forma raccolta, con pochi presenti e tanto rispetto. I maestri di festa ricevevano il loro giglio come un dono, quasi in silenzio, tra occhi lucidi e mani strette.
Oggi l’assegnazione è diventata una bolgia, una sorta di anticipo del tifo da paranza, tra urla, presenze esibite, un’arena rumorosa, dove si sgomitano post. Insomma una sorta di palcoscenico allargato, una vetrina senza grazia, dove anche la speranza assume i contorni della rivalità, e l’emozione lascia spazio all’affanno.
È questo lo scarto più doloroso: non si percepisce più la differenza tra rito e rumore, tant’è che fin dalla sua genesi annuale il rito inizia a perdere il suo significato. E la festa, che pure sa ancora affascinare nei suoi momenti migliori, sembra sopravvivere malgrado chi la celebra, non grazie a loro.
Il dettaglio è sicuramente più inquietante, più sottile. Si insinua nelle pieghe di un’organizzazione totalmente cambiata che nulla ha a che fare con il santo. E intorno una città che non riesce più a proteggere la bellezza che dice di amare.
Basta guardare, basta ascoltare, rileggere i commenti, sentire gli sguardi, le battute a denti stretti, l’insofferenza che cresce e il rispetto che crolla. Il declino non ha bisogno di manifesti: parla da sè. Cercasi, ora, parole come dictat, regole, limiti.
E il coraggio di iniziare a parlare una nuova lingua.