Napoli: in migliaia ai funerali di Giovanbattista Cutolo, monsignor Battaglia: “Giogiò perdonaci”
Giustizia invocano in tantissimo mentre la bara bianca entra nella chiesa del Gesù nuovo. Giovanbattista è morto, come un po’ tutti i napoletani, come si muore un po’ dentro al cospetto del le troppe volte che un innocente lascia questa terra solo per il vezzo prepotente altrui.
I napoletani però ci sono, come le istituzioni locali e nazionali, tutte in fila tra i banchi della chiesa, per la prima volta in seguito ad un così grave atto di crudeltà, quasi come se Napoli ne fosse avulsa.
Ma ci sono e forse questa volta per essere più attenti, risoluti, mescolando tra le preghiere il nome di tanti ragazzi finiti come giogiò.
E poi c’è mamma Daniela, coccolata dal frastuono della gente, dai riflettori accessi sulla morte del figlio, una vera panacea in questo momento, utili a tenere a bada un dolore così devastante che solo ad immaginarlo fa venire i brividi.
Il corno, adagiato sulla bara, quella ragione in più che teneva Giovanbattista legato alla città culla dell’arte, della musica, della cultura, ma allo stesso tempo fagocitata dal suo ventre molle e malsano.
Nella chiesa e fuori è un sussulto di sentimenti contrastanti, un insieme di occhi smarriti, in cerca di aiuto.
Le parole di monsignor Battaglia, feroci e cristalline, raccontato una verità nascosta che tutti conoscono e che suona come l’ennesima sconfitta.
“Nessun adulto può sentirsi assolto. dice. Sono colpevole anche io, accetta la mia richiesta di perdono amico e fratello mio. Forse avrei dovuto non solo appellarmi ma gridare, affinché i proclami si trasformassero in azioni concrete. Perdona la tua città. Perdona, figlio nostro, tutti gli adulti di Napoli che non si rendono conto che tutti i ragazzi sono figli di Napoli e tutti devono prendersene cura.
Questa mano l’abbiamo armata anche noi.
Coi nostri ritardi, con le promesse non mantenute, i proclami i comunicati, con l’incapacità di non capire i problemi endemici di questa città, perdona i nostri protagonisti, la nostra incapacità di fare rete, di superare l’io per il noi.”
Per il vescovo di Napoli, forse c’è ancora tempo per trasformare i coltelli, le pistole in luoghi educativi e posto di lavoro, i pugni in mani tese.
Forse. Chissa!