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Afragola: Martina Carbonaro uccisa dal fidanzato 19 enne, era scomparsa da casa due giorni fa

“Un momento di rabbia.” È così che l’ha detto. Diciannove anni, mani sporche e una confessione asciutta, senza tremori. “Un momento di rabbia.” Come se bastasse.

Martina aveva 14 anni. Voleva un gelato, due passi, forse tre chiacchiere con delle amiche. Aveva ancora addosso i gesti pieni dell’adolescenza, i capelli sciolti, la voglia di vivere che non ha bisogno di spiegazioni. Era una ragazza libera. E per questo è morta.

Il suo corpo è stato trovato in un edificio abbandonato, quello che una volta era l’abitazione del custode del vecchio campo sportivo Moccia, ad Afragola. Non ci è arrivata da sola.Lì ci è entrata con lui. Con l’ex. Un ragazzo di diciannove anni, troppo grande per i suoi quattordici. Uno che non accettava di essere lasciato. Uno che ha preferito uccidere, piuttosto che essere dimenticato. Non è stato un blackout. Non è stato un raptus. Non è stato amore. È stato potere. L’ha colpita con una pietra. Alla testa. Più volte. Con la furia di chi si sente derubato di qualcosa che crede di possedere. Perché Martina aveva detto no. Aveva scelto. Aveva osato andarsene. Questa non è cronaca nera. È una radiografia sociale. È la prova vivente – o meglio, la prova morta – che la cultura del possesso è viva, ovunque. Che a quattordici anni puoi ancora finire ammazzata per aver detto “non ti voglio più”. La rabbia di lui non è un lampo. È un percorso. Inizia presto, silenziosa, in casa. Tra padri che urlano, madri che sopportano, professori che non ascoltano, amici che ridono e spingono a “farti valere”.

Inizia quando nessuno insegna a un ragazzo che amare non significa trattenere, ma lasciare andare. Che un no non è una sfida da vincere, è una porta chiusa da rispettare. Martina è finita in un sacco nero. Mentre sua madre, nella notte, urlava il suo nome davanti a un cancello sbarrato. Urla che non hanno bisogno di traduzioni. Sono l’unica lingua universale di questo tempo malato. Poi la confessione. “Un momento di rabbia.” E intorno, l’abitudine. Gente che sospira, “poveri ragazzi”. Chi dice: “eh ma sono storie complicate”. Chi cerca il motivo nel cuore, invece che nella testa e nelle mani. La verità è più semplice. Martina è morta perché un ragazzo non accettava il confine tra sé e l’altra. E nessuno, prima, glielo aveva insegnato. La libertà dell’altro non è un’offesa. È un diritto. Eppure ogni volta siamo qui. A ricostruire storie che sembrano già viste. A raccogliere foto con didascalie strazianti. A leggere frasi di sindaci, presidi, parroci.

A piangere ragazze con i capelli lunghi e i sogni corti. E ogni volta ci promettiamo che cambierà. Che faremo prevenzione. Educazione. Ascolto. Ma intanto, Martina è lì. Sotto terra. Con il futuro spezzato di netto. A quattordici anni. E lui è in stato di fermo.

Dice che era solo un momento. Ma noi sappiamo che quella pietra, prima di colpire, l’avevamo posata tutti. Con la nostra distrazione. Con il nostro silenzio. Con ogni volta che abbiamo pensato “non riguarda me”.

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